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L’Antropocene: una narrazione politica

L’Antropocene: una narrazione politica

Il testo è stato utilizzato come introduzione al seminario autogestito “Disfare l’Antropocene: una prospettiva ecotransfemminista” organizzato il 15 aprile 2019 dagli/dalle studenti dell’Aula LP – Lettere Precarie della Facoltà di Filosofia di Napoli. L’articolo è apparso per la prima volta su IAPHItalia il 18 ottobre 2018.

Quello del cosiddetto Antropocene, ossia l’era delle alterazioni climatiche in corso, è un concetto elaborato nelle scienze naturali, pur essendo di natura eminentemente storica.Esso mostra una tendenza ad informare le politiche climatiche a livello globale, e dunque merita un esame attento. L’articolo offre una critica radicale del concetto di Antropocene svelandone le connotazioni di genere, di classe, e neocoloniali

Il concetto di Antropocene

Uno dei più vivaci dibattiti in corso nel campo degli studi sociali e umanistici sull’ambiente è quello relativo al controverso concetto di Antropocene. Tale è il nome proposto, una quindicina di anni fa, per designare una nuova epoca geologica, chiaramente distinguibile dall’Olocene, originata dall’impatto delle attività umane sull’atmosfera, misurabili stratigraficamente al livello della litosfera, cioè la superficie terrestre. In breve, l’Antropocene è l’epoca in cui le emissioni di CO2 generate dalle attività umane hanno cambiato il clima e di conseguenza le condizioni per la vita sulla terra. Più recentemente, è diventato chiaro che la CO2 non è l’unico indicatore rilevante. A partire dall’avvento del motore a vapore, l’enorme crescita della produzione industriale, dei trasporti e delle comunicazioni, delle infrastrutture, dei test nucleari e militari, l’uso di sostanze chimiche, uniti alla crescita del numero umano e dei livelli di consumo, hanno profondamente modificato le condizioni per la vita sulla Terra.
L’incidenza di questi fattori è aumentata drasticamente a partire da un momento più recente, il periodo dal 1950 ad oggi, che è stato ribattezzato la Grande Accelerazione.
Un marcato aumento degli eventi climatici catastrofici, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento dei livelli del mare, l’acidificazione degli oceani, una diffusa contaminazione del suolo e dell’acqua da parte di radionuclidi e sedimenti “tecnofossili” e una nuova ondata di estinzioni sono i principali indicatori del futuro dell’umanità che come specie è stata messa a rischio. Emerso dalle scienze naturali, ma di natura intrinsecamente storica, il concetto di Antropocene ha dato una svolta inaspettata alla visione prometeica della crescita economica moderna in quanto supposto trionfo dell’umanità sui limiti naturali attraverso la tecnologia dei combustibili fossili. Quali conseguenze trarre da questa nuova evidenza scientifica è tuttavia tema controverso. Per quanto si tratti di un dibattito assai ampio e differenziato, per i fini di questo articolo possiamo riassumerne sommariamente i termini nella contrapposizione tra due posizioni: da un lato, vi sono coloro che leggono l’Antropocene dentro il paradigma della Modernizzazione Ecologica; dall’altro coloro che si ispirano ai principi della Giustizia Ambientale (Environmental Justice, EJ), nella sua versione planetaria (o di giustizia climatica). Il dibattito ha una rilevanza ben maggiore che il ristretto ambito dell’accademia: in gioco ci sono infatti le politiche climatiche, e dunque la governance ambientale planetaria, con ripercussioni sulle politiche economiche e finanziarie, sulla regolazione dei flussi migratori, sul rapporto tra città e campagne (per citare solo alcuni punti). Il paradigma della Modernizzazione Ecologica è stato ed è tuttora quello dominante, ma una crescente insoddisfazione è emersa ormai a causa della manifesta inerzia ed iniquità delle sue politiche, tra cui gli accordi sulle emissioni di carbonio dal protocollo di Kyoto in poi. Settori sempre più ampi delle scienze sociali e umane sono ormai consapevoli della necessità di rivedere tali politiche e dunque le visioni scientifiche che le supportano. Gli studi umanistico-ambientali (in inglese noti come Environmental Humanities) – un’area di ricerca multidisciplinare emersa nel corso dell’ultimo decennio – sono specificamente dedicati al dibattito critico sull’Antropocene.

La rivoluzione Khuniana: dal paradigma della Modernizzazione Ecologica a quello della Giustizia Climatica

Ma perché il loro contributo possa fare la differenza nel discorso pubblico e nelle politiche climatiche, diventa essenziale il loro ruolo nel promuovere una vera e propria rivoluzione Khuniana, dal paradigma della Modernizzazione Ecologica a quello della Giustizia Climatica. Questo cambio di paradigma, sostengo, poggia su tre pilastri fondamentali: la critica del dominio patriarcale, critica del dominio coloniale e razziale, e critica del dominio di specie. Per sviluppare questo argomento, desidero partire dall’immagine di un’installazione dell’artista Isaac Cordal, chiamata Follow the Leaders (Seguite i Capi), nota anche come Politicians Discussing Global Warming (‘Politici che discutono del riscaldamento globale’). Questa fa parte di una serie di installazioni che l’artista descrive come “una riflessione critica sulla nostra inerzia come massa sociale” e rappresenta, sempre nelle parole dell’artista, “lo stereotipo sociale associato a uomini d’affari e di potere che gestiscono lo spettro sociale globale”. Raffigurando un gruppo omogeneo di persone (tutti uomini bianchi di età avanzata), deputati visibilmente a rappresentare la specie umana (l’Anthropos) l’opera sollecita, forse senza volerlo, la domanda:

dove sono tutti gli altri? chi (e cosa) è diventato invisibile?

Isaac Cordal, Follow the leaders

La risposta suggerita dall’installazione di Cordaal è che ‘gli altri’ sono invisibili perché già annegati, vittime non soltanto del cambiamento climatico ma anche dell’inerzia del potere. Destinato a veicolare un messaggio forte (il tempo è scaduto, la politica ha fallito), questa opera può in realtà trasmettere un messaggio collaterale, quello di esporre il privilegio e la supremazia planetaria dell’Uomo bianco. Le figure rappresentate possono essere intese come espressione di diversi tipi di ‘decisori’ in campi largamente dominati dalla presenza maschile/occidentale, come la scienza e il mondo accademico, i governi nazionali e le agenzie intergovernative, le confederazioni sindacali globali, così come un buon numero di fondazioni, think-tanks e ONG. Quanto questa interpretazione sia vicina alla realtà ce lo dicono, per fare solo un esempio, i dati sulla composizione dell’Anthropocene Working Group, il gruppo di scienziati deputati dall’Associazione Mondiale di Stratigrafia a decretare se effettivamente il pianeta sia entrato in una nuova era geologica e quali le cause eventuali. Al momento della sua formazione, il gruppo contava 30 scienziati di cui una sola donna; il rapporto è attualmente di 5 su 36. Appena 4 di questi, tuttavia, provengono da paesi non-OECD. Questi numeri hanno indotto la saggista e docente di economia di Oxford Kate Raworth a suggerire provocatoriamente che l’Anthropocene andrebbe in realtà chiamato Man-trhopocene o North-ropocene.
Tornando all’installazione di Cordaal, gli uomini bianchi in essa rappresentati godono chiaramente di una serie di privilegi, tra cui quello di essere gli ultimi sopravvissuti al riscaldamento atmosferico globale. Se vediamo l’opera come la rappresentazione dei leader mondiali che gestiscono gli accordi climatici nelle riunioni COP, diventa evidente come questi ultimi godano non soltanto del privilegio ma anche della supremazia planetaria, ovvero hanno il potere di decidere sulle sorti non solo dell’umanità ma di tutte le altre forme di vita con cui condividiamo il pianeta. Tale supremazia, e questo è il punto che vorrei sottolineare, si esercita prima di tutto mettendo a tacere la voce degli ‘altri’, o rendendo irrilevanti i loro argomenti, le loro storie. Tale combinazione di violenza materiale (ecocidio) e simbolica (censura, silenziamento del dissenso) forma ciò che ho definito come ‘violenza ambientale’58
(Barca 2014). Se seguiamo questo filo interpretativo, potremmo concludere che, se il tempo è scaduto e la politica ha fallito, è esattamente a causa della supremazia globale dell’uomo bianco, che ha messo ‘gli altri’ a tacere, rendendoli invisibili finché non sono annegati. Diventa dunque fondamentale cambiare la narrazione dell’Antropocene – fino a rifiutarne il nome stesso, in quanto espressione di una visione parziale e distorta del cambiamento storico e climatico.

Una nuova narrazione?

Negli ultimi 15 anni, l’Antropocene ha dato luogo ad una narrazione scientifica del cambiamento storico che aspira a diventare il nuovo paradigma dominante negli studi ambientali e nelle politiche ambientali globali. È quindi molto importante esercitare un’analisi critica di questo nuovo paradigma e delle sue molteplici implicazioni prima che si solidifichi in un canone accettato. Un buon punto di partenza consiste nel chiedersi fino a che punto il discorso antropocenico rappresenti una rottura con precedenti narrazioni storiche. Prendiamo ad esempio la trama sviluppata dal portale online www.anthropocene.info – un’iniziativa educativa promossa da diversi centri di ricerca, think-tanks e agenzie di finanziamento sui cambiamenti climatici e la sostenibilità – e in particolare il video introduttivo, intitolato Welcome to theAnthropocene, che offre “un viaggio di 3 minuti attraverso gli ultimi 250 anni dall’inizio della rivoluzione industriale ad oggi”. Progettato in occasione dell’apertura del vertice Rio + 20 delle Nazioni Unite, questo video va considerato la rappresentazione globale ufficiale dell’Antropocene. La narrazione presenta un “noi”, soggetto collettivo non specificato, che, dopo aver migliorato la vita di miliardi di esseri umani, è diventato un fattore di cambiamento planetario paragonabile alle forze della natura e che sta mettendo a rischio la continuazione della vita sulla terra. Entra in scena dunque l’Antropocene, l’era della “umanità”.

Nonostante la lunga lista di rischi planetari che caratterizzano la nuova epoca – continua la narrazione – non c’è da disperare: le conquiste del passato dimostrano infatti che “noi” è una forza in grado di plasmare il suo destino, insieme a quello del pianeta, e che può ancora salvare il mondo trovando il suo “spazio operativo sicuro” entro i limiti bio-geo-chimici stabiliti dal sistema Terra.

Sebbene il riconoscimento del cambiamento ambientale globale come antropogenico sia qualcosa di relativamente nuovo nel discorso pubblico, il video non rappresenta una narrazione fondamentalmente nuova. In realtà, esso può essere visto come un nuovo capitolo in una consolidata narrazione storiografica, quella della Crescita Economica Moderna (Modern Economic Growth – MEG), che ha formato generazioni di studenti nell’era del secondo dopoguerra: un racconto prometeico, che celebra la crescita del prodotto interno lordo delle economie industrializzate oltre i limiti biofisici delle risorse rinnovabili, vale a dire oltre la cosiddetta “trappola malthusiana”. Considerata come un successo indiscutibile dell’umanità, questa crescita è attribuita a due fattori, entrambi associati ad un soggetto collettivo che a ben guardare è l’uomo bianco: 1. lo sviluppo di nuove tecnologie, a partire dal binomio carbone-vapore, che ha permesso un aumento esponenziale del consumo energetico pro-capite, e 2. le recinzioni (abolizione della proprietà comune della terra e privatizzazione delle risorse naturali ad essa associate) che hanno permesso investimenti di capitale nella trasformazione della natura, consentendone un uso presumibilmente più efficiente – seguendo la visione Lockiana della proprietà. Nel suo essere racconto della modernità occidentale, la narrazione MEG valuta positivamente il bilancio storico della colonizzazione, in quanto questa avrebbe permesso la diffusione del modello di successo economico occidentale nel resto del mondo. Questa storia di successo poggia su una presunta eccezionalità europea in termini di ingegno (miglioramento tecnico) e istituzioni (proprietà privata). Come tale, MEG è stata – ed è tuttora – una narrazione dominante (master narrative) poiché rappresenta una versione della storia basata sul “racconto del padrone” (master’snarrative) nel senso coloniale e patriarcale del termine: il capo della tenuta, della fabbrica, della società commerciale; il proprietario di schiavi e il titolare dell’autorità legale su donne, animali e soggetti colonizzati. La narrazione MEG è la storia raccontata da questo soggetto dominante, la cui voce e il cui punto di vista sul mondo acquistano legittimità attraverso il silenziamento delle voci a lui subalterne. Essa si basa su una totale cancellazione dei costi sociali ed ecologici associati all’aumento globale del consumo di energia, ed è quindi completamente muta sulla iniqua distribuzione di tali costi tra classi sociali, generi, aree geografiche, e tra le specie che popolano il pianeta (in particolare, tra la specie umana e quelle a cui essa attribuisce maggiore valore, e tutte le altre).
Negli anni ’90, la narrazione MEG divenne interconnessa con un nuova teoria sociale, quella della Modernizzazione Ecologica, che sorgeva come risposta al riconoscimento ufficiale di una crisi ecologica globale da parte delle Nazioni Unite: basata su un approccio sociologico postmaterialista e sull’economia ambientale (in particolare, sulla cosiddetta curva di Kuznets ambientale, EKC), la Modernizzazione Ecologica ha offerto una visione positiva e progressiva della storia in cui la crisi ecologica si risolverà da sola, lasciando fare il mercato: questo porterà infatti a disaccoppiare la produzione di ricchezza dall’uso delle risorse, grazie a tecnologie a minore consumo energetico e di materiali, come predicato del resto dall’ideologia dello sviluppo sostenibile, che a Rio 2012 è stato ormai ribattezzato ufficialmente come “crescita verde”. Nella teoria della Modernizzazione Ecologica, la sostenibilità appariva come il risultato inevitabile della combinazione tra soluzioni tecniche – cioè la diminuzione del contenuto di energia per unità di PIL, che avrebbe portato a una presunta dematerializzazione dell’economia – e soluzioni di mercato – cioè la mercificazione e la finanziarizzazione della natura, la cui fondamentale traduzione politica sono gli accordi sulle emissioni di carbonio.
Come la narrazione MEG, così la teoria della Modernizzazione Ecologica postulava la validità universale dell’esperienza di alcuni paesi dell’Europa nord-occidentale nel periodo di transizione dalla base economica industriale a quella post-industriale. Con ottimismo progressista eurocentrico, questa teoria ha aggirato vari problemi della cosiddetta dematerializzazione dell’economia: il fatto che questa non facesse che spostare i costi ambientali verso terzi, in particolare i “paesi in via di sviluppo” e le frontiere estrattive del capitalismo globalizzato; che la diminuzione dell’intensità energetica per unità di PIL consenta un aumento incrementale della produzione e del consumo totali, con effetti di fatto negativi sugli equilibri ecologici globali (un problema noto come “paradosso di Jevons”); che la politica di attribuire un prezzo alla natura riflette e riproduce ineguaglianze sociali, spaziali e di specie. Tutti questi problemi sono ben noti e in effetti la Modernizzazione Ecologica è una teoria altamente contestata nelle scienze sociali: tuttavia, essa è diventata il paradigma dominante nelle politiche ambientali a tutti i livelli, ed ha plasmato i due vertici ambientali globali (Rio 1992 e Rio 2012) e i negoziati sul clima degli ultimi 23 anni. La sua inefficacia e inefficienza sono evidenti, tuttavia non possiamo liberarcene. È una manifestazione sorprendente della supremazia dell’uomo bianco: la narrazione del padrone che si traduce in un dogma politico globale.
Il dogma della Modernizzazione Ecologica è stato capace di reinventare sé stesso alla luce di nuovi dati provenienti dalla letteratura scientifica sull’Antropocene, che hanno reso davvero impossibile ignorare o controbilanciare i costi ecologici della crescita economica negli ultimi due secoli. Le principali versioni aggiornate della Modernizzazione Ecologica sono due: la teoria dei “confini planetari” (Planetary Boundaries), ben rappresentata dal video Welcome to the Anthropocene, in cui non è necessario alcun cambiamento sistemico che coinvolga le strutture sociali e l’economia politica globale; piuttosto, lo sviluppo sostenibile è ancora possibile, soprattutto diffondendo la conoscenza scientifica e tecnologica dai paesi industrializzati occidentali ai paesi in via di sviluppo in modo che questi ultimi possano adottare le migliori soluzioni tecniche disponibili. Il secondo aggiornamento lo si trova nel Manifesto Ecomodernista, promosso da una rete di think-tanks, centri di ricerca e istituzioni finanziarie. Quest’ultimo propone l’adozione diffusa dell’energia nucleare, dei cibi geneticamente modificati e della geoingegneria come soluzioni definitive ai cambiamenti climatici.
In sintesi, il paradosso del discorso egemonico sull’Antropocene è che le soluzioni tecnocratiche attualmente offerte nella governance globale climatica e ambientale “si basano su molte delle stesse soluzioni patriarcali e androcentriche che hanno creato il problema in primo luogo” (Grusin 2017, p. ix), ostacolando così le possibilità di sviluppare una politica di giustizia ambientale globale.

Altre narrazioni: la storia ambientale

La storia ufficiale dell’Antropocene è dunque una narrazione neocoloniale e androcentrica che è stata prodotta educando la società nel paradigma eco-modernista.

La sua enfasi sul progresso tecnico e sul mercato rende invisibili due aspetti chiave del cambiamento ecologico in corso: da un lato, le disuguaglianze sociali, spaziali, e di specie che lo hanno prodotto e che fanno sì che i suoi costi siano distribuiti disegualmente; dall’altro il valore socio-ecologico e neghentropico del lavoro riproduttivo e di cura nel contrastare il degrado dei sistemi terrestri e in sostegno della vita. Tornerò su quest’ultimo punto più avanti. È importante però prima rimarcare che quella delineata finora non è l’unica narrazione esistente sul cambiamento climatico. È da ormai più di tre decenni che un nuovo campo di ricerca è stato aperto dentro le science umane, quello della storia ambientale, che si è impegnata a ricostruire origini e sviluppi della crisi ecologica ricercandole nell’interazione dinamica tra le società umane e il loro ambiente biofisico nel corso del tempo, prendendo in considerazioni tanto gli aspetti materiali (interscambio di energia e materia, degrado entropico) quanto quelli simbolici (scienza, percezione del mondo, religione, cultura). Procedendo in parallelo alla narrazione MEG, la storia ambientale ha ampiamente documentato il ruolo dominante giocato dalla civiltà occidentale (Europa e neo/colonie) nel determinare il degrado progressivo e incrementale della biosfera a partire dall’era delle scoperte geografiche. Questa letteratura è servita a rivelare le storie alternative che erano state messe a tacere dalla narrazione MEG, chiamando in causa una varietà di teorie – metabolismo sociale, scambio ecologicamente iniquo e debito climatico, deriva metabolica, rivoluzione ecologica – elaborate con il supporto delle scienze sociali per svelare i meccanismi di questo cambiamento ambientale globale di natura antropogenica.
Sebbene la storia dell’ambiente sia stata parzialmente usata per supportare il paradigma della Modernizzazione Ecologica, enfatizzando il miglioramento tecnico e le riforme legislative come strumenti importanti di mitigazione degli impatti ambientali in molti casi storici, questa interpretazione richiede, ancora una volta, di oscurare o lasciare a lato tutta una parte della storia, quella che mostra come tali progressi dell’uomo bianco siano stati pagati in gran parte da ‘altri’. È il caso della proclamata dematerializzazione delle economie industriali avanzate, misurata in base al fatto che la produzione di valore aggiunto avviene ora più attraverso l’informazione e la fornitura di servizi immateriali che non attraverso il settore manifatturiero. Ciò ha (entro certi limiti) alleviato la pressione sull’ambiente fisico nei paesi occidentali, e persino consentito la re-naturalizzazione (rewilding) di alcune aree precedentemente industriali, creando dunque l’illusione che il futuro della sostenibilità risieda nel seguire questo modello. Tuttavia, tale narrazione funziona solo ignorando 1) che la dematerializzazione dell’economia occidentale va vista dentro il contesto della globalizzazione, che ha reso più conveniente spostare la produzione di beni ad alto potere inquinante verso i paesi in via di sviluppo; 2) che l’informatizzazione e digitalizzazione dei servizi comporta, da un lato, l’estrazione su grande scala di minerali rari, con un effetto devastante sugli ecosistemi, le risorse, e tutte le forme di vita nelle zone di produzione, e dall’altro la necessità di smaltire crescenti quantità di rifiuti pericolosi, ancora una volta smistati verso i paesi poveri. Si capisce dunque quanto la teoria della Modernizzazione Ecologica si basi sull’esistenza di un rapporto neocoloniale tra i paesi OECD e il resto del mondo.
Vale la pena tuttavia ricordare che, dematerializzazione o meno, le stesse economie avanzate continuano oggi a pagare i costi umani e ambientali della crescita economica esponenziale vissuta nella seconda metà del Novecento, attraverso l’inquinamento da metalli pesanti, scorie radioattive, amianto, benzene ed altri Polluenti Organici Persistenti (POP), le cui tracce risalgono da suoli e falde acquifere fino ai tessuti organici di persone e animali. Tali costi ambientali, come dimostra una ormai consolidata letteratura socio-statistica ed epidemiologica nel campo della Giustizia Ambientale (Environmental Justice), non sono equamente distribuiti: essi tendono a concentrarsi nelle cosiddette ‘zone di sacrificio’ – ovvero territori marginali abitati da comunità di cittadini/e di serie b, alle cui vite, per ragioni diverse, viene attribuito un valore minore rispetto alla media nazionale o regionale. È questo il caso, in Italia, dei cosiddetti Siti di Interesse Nazionale per le bonifiche, studiati da un gruppo di
epidemiologi/ghe riuniti nel progetto SENTIERI (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento) a partire dai primi anni 2000.

Distaccandosi decisamente dal paradigma della modernizzazione Ecologica, e interagendo non soltanto con le scienze naturali ma anche con le scienze sociali e con altri campi del sapere storico (la storia sociale, quella di genere, e quella coloniale), un certo numero di studiosi/e di storia dell’ambiente ha contribuito a rendere visibili le storie sommerse dalla “narrazione del padrone”.

Il loro lavoro ha gettato luce sulla triade capitalismo/colonialismo/patriarcato come causa strutturale del degrado ambientale dalla scala locale a quella globale, e sui dualismi natura/cultura-maschile/femminile-occidente/resto del mondo, tipici del pensiero occidentale moderno, come substrato ideologico della crisi stessa. Di particolare rilevanza in questo campo è stato il lavoro della storica e filosofa statunitense Carolyn Merchant, ed in particolare la sua teoria della crisi ecologica come prodotto delle contraddizioni che si verificano – in determinate congiunture storiche – tra produzione, riproduzione, ed ecologia, dando vita a nuove configurazioni dei rapporti tra le tre sfere. Tali trasformazioni sono a loro volta accompagnate da trasformazioni radicali nella coscienza ecologica collettiva, ovvero nel modo in cui la società considera l’ambiente biofisico. L’insieme di queste trasformazioni radicali nella sfera materiale ed in quella simbolica, secondo Merchant, costituisce una Rivoluzione Ecologica: un concetto non necessariamente di valore progressivo, in quanto può segnalare invece un netto degrado delle condizioni per la riproduzione della vita a vari livelli.
Studiando il cambiamento ambientale nella costa orientale del Nord America, Merchant identificò due rivoluzioni ecologiche susseguitesi a partire dall’arrivo degli Europei nel XVI secolo: la prima fu la rivoluzione coloniale, in cui il modo di produzione e riproduzione dei nativi (di carattere matriarcale), nonché l’ambiente biofisico e le forme di vita che caratterizzavano il loro mondo, furono alterati in modo permanente e irreversibile portando allo sterminio di intere popolazioni e specie animali e vegetali, e lasciano il posto ad una cultura patriarcale e ad ecosistemi del tutto nuovi. La seconda fu la rivoluzione capitalista/industriale del XIX secolo, in cui l’agricoltura di sussistenza delle comunità di pionieri, unita al commercio su scala locale e alla continua emigrazione delle eccedenze demografiche, fu gradualmente sostituita da una specializzazione e intensificazione crescenti della produzione agricola, con la proletarizzazione della forza lavoro e la transizione verso i combustibili fossili. Queste trasformazioni portarono ad una nuova drammatica riconfigurazione dell’ambiente biofisico, con lo sviluppo urbano e delle infrastrutture, l’inquinamento pervasivo, l’eccezionale aumento della densità demografica dovuta all’immigrazione di forza lavoro, etc. Come la prima rivoluzione ecologica del New England, anche questa seconda si basò su una trasformazione dei rapporti tra i generi e della divisione sessuale del lavoro nella società: il sistema patriarcale, cioè, veniva minato dal crescente benessere materiale, che consentiva alle donne di accedere all’istruzione di massa e di partecipare attivamente alle istanze di cambiamento politico e sociale conquistando diritti che erano stati loro negati precedentemente (voto, aborto etc). Tali conquiste, però, venivano pagate con il progressivo cancellamento delle capacità di autonomia e resilienza delle persone rispetto all’ambiente biofisico, ovvero con la loro semi-completa separazione dai mezzi di produzione e alienazione dal prodotto del loro lavoro. Catena di montaggio, automazione, e specializzazione distruggevano i saperi diffusi e rendevano le persone incapaci di sopravvivere al di fuori di un sistema tecnologico complesso su cui esse non avevano alcun controllo. Un cambiamento radicale della coscienza ecologica collettiva accompagnava questa seconda rivoluzione ecologica: esso era il prodotto della crescente alienazione delle persone dalla loro dimensione ecologica, con conseguenze negative sul loro benessere psico-fisico e sugli equilibri ecologici complessivi.
Sebbene la teoria delle rivoluzioni ecologiche sia stata elaborata da Merchant sulla base di uno studio regionale, quello del New England, tale approccio può gettare nuova luce sule trasformazioni planetarie dell’era attuale. L’Antropocene può essere infatti considerato come una rivoluzione ecologica in corso, di carattere globale, segnata da una triplice trasformazione: 1) quella del modo di produzione, dal predominio del settore manifatturiero a quello dei settori informatico, finanziario, e dei servizi alla persona; 2) quella delle forme della riproduzione, tanto umana (nuova ondata di migrazioni di massa, nuove transizioni epidemiologica e demografica) quanto non-umana (la sesta grande estinzione nella storia del pianeta); 3) la trasformazione ecologica, segnalata dall’alterazione permanente della composizione chimica dell’atmosfera e della superficie terrestre.

Come le precedenti, questa nuova rivoluzione ecologica in corso è segnata da cambiamenti radicali nei rapporti di genere, con una intensa femminilizzazione della forza lavoro a livello globale, ed una crescente importanza economica del lavoro di cura e di riproduzione. Al tempo stesso, essa è accompagnata da una nuova trasformazione della coscienza ecologica collettiva, segnata da nuove forme di consapevolezza e di mobilitazione ecologica, tra cui spiccano le lotte per la giustizia ambientale e climatica.

Tutte le rivoluzioni ecologiche sono originate dall’esplodere di contraddizioni e producono nuovi equilibri tra le forze in azione. Il fatto che questa nuova rivoluzione ecologica sia ancora in corso permette (ancora) di sperare in un esito non del tutto scontato. Le forze in campo, infatti, sono diverse: da un lato, la triade capitalismo/neocolonialismo/patriarcato, resa ancora più potente e diffusa dalla globalizzazione neoliberista, continua a produrre crisi ecologica in quanto riduce tutto (persone, lavoro, ambiente, conoscenza) al suo valore di scambio, la cui massimizzazione è ottenuta con lo sfruttamento e il degrado di corpi, risorse, ecosistemi. La conseguenza estrema di queste spinte, ormai è chiaro, sarebbe molto probabilmente l’estinzione della vita sul pianeta, o comunque una drastica riduzione delle possibilità di sopravvivenza non soltanto per la specie umana. Diventa dunque fondamentale rendere visibili e riconoscere il giusto valore alle forze che contrastano le tendenze distruttive delle trasformazioni in atto, poiché da esse dipende, in ultima analisi, l’esito della rivoluzione ecologica corrente. Tra queste, vorrei sottolineare le “forze della riproduzione”: il lavoro di cura, sostentamento, ri/generazione, conservazione e trasmissione intergenerazionale della vita umana, animale, e vegetale così come delle condizioni geofisiche che la rendono possibile, e dei saperi che promuovono relazioni di interdipendenza tra produzione, riproduzione, ed ecologia.
Questo è, in estrema sintesi, il nocciolo dell’ecofemminismo materialista, un corpo di teoria sociale che invita a considerare l’Antropocene come una narrazione incompleta del cambiamento ecologico globale, in quanto concentrata sulla produzione industriale e le tecnologie ad essa associate, oscurando il valore della riproduzione e dei saperi ad essa associati. L’economista politica australiana Ariel Salleh chiama questo altro tipo di lavoro “meta-industriale”, ed il valore da esso prodotto come “valore metabolico” – enfatizzando il fatto che la sua rilevanza non si misura in dollari, e evidenziando la sua invisibilità dentro il discorso egemonico tanto sull’economia quanto sul cambiamento climatico. Data la divisione sessuale del lavoro che caratterizza tanto le società ricche quanto quelle povere, questo lavoro è svolto in maggioranza dalle donne, spesso in forma non salariata, ed è dunque sottostimato nelle statistiche ufficiali e sottovalutato nei rendiconti del PIL. A livello globale, scrive Greta Gaard (2015: 23), le donne “lavorano 2/3 delle ore totali di lavoro, producono metà del cibo consumato nel mondo e guadagnano il 10% del reddito globale”. Si tratta di un contributo del tutto invisibile nella narrazione ufficiale dell’Antropocene. Questa invisibilità, e la de-valorizzazione del lavoro di riproduzione che essa comporta, concorrono a determinare il fatto che, pur essendo le maggiori produttrici del “valore metabolico” che tiene in vita la specie umana e riproduce le sue condizioni di sussistenza, le donne sono oggi la popolazione più vulnerabile ai cambiamenti catastrofici in atto nel sistema terrestre – una vulnerabilità che è l’effetto congiunto di maggiore povertà e minore accesso alle risorse rispetto agli uomini.

Conclusioni

Risulta da quanto esposto, secondo l’approccio ecofemminista materialista, che le donne costituiscano non soltanto la categoria sociale più oppressa dalla triade capitalismo/neocolonialismo/patriarcato, ma al tempo stesso quella con il maggiore interesse nel suo rovesciamento e sostituzione con un nuovo sistema di relazioni socio-ecologiche. Si tratta di una visione politica dell’Antropocene che rifiuta la narrazione della Modernizzazione Ecologica, in cui la salvezza della specie è affidata all’uomo bianco armato degli stessi strumenti tecnici ed ideologici che in primo luogo hanno prodotto la crisi, per sostituirla con una nuova narrazione, in cui la salvezza della specie umana viene dal lavoro meta-industriale, e dunque innanzitutto dalle donne del sud globale, che ne formano la maggioranza numerica, e dalle loro lotte contro le forze del degrado ecologico. Questa visione è supportata dall’evidenza empirica che ci giunge da una serie innumerevole di luoghi e di storie, nessuno dei quali trova spazio nella narrazione ufficiale dell’Antropocene. Basta consultare, per esempio, l’Atlante dei Conflitti Ambientali nel mondo (www.ejatlas.org) per trovarne conferma: risultato di un lavoro di raccolta di testimonianze e informazioni dal basso, rappresentate poi in forma geo-spaziale aperta alla revisione continua e interattiva con gli attori in campo, l’Atlante mostra la molteplicità delle forme in cui le “forze della riproduzione” nel mondo sono impegnate per disfare l’Antropocene. Queste azioni di resistenza e opposizione, come quella di popoli indigeni e comunità rurali ai nuovi progetti estrattivi (si pensi ad esempio all’opposizione al gasdotto TAP in Puglia), o delle donne afro-americane (e di quelle della cosiddetta Terra dei Fuochi) alla concentrazione di inceneritori e discariche di rifiuti nei loro quartieri, sono un aspetto fondamentale del contrasto al degrado ecologico e al cambiamento climatico globale, come ha rilevato anche la scrittrice canadese Naomi Klein nel suo This Changes Everything. Capitalism vs the Climate (in Italia pubblicato come Una rivoluzione ci salverá). Ma non va dimenticato che tali opposizioni non sono fini a sé stesse: esse piuttosto servono a garantire la continuazione del “lavoro meta-industriale” senza il quale non vi sarebbe continuità della vita; servono a permettere il dispiegamento di pratiche e saperi alternativi a quelli che dominano attualmente l’economia globale, e dunque a creare le condizioni perché il “valore metabolico” possa espandersi a scapito del degrado su tutte le scale possibili.

Rendere visibile questo lavoro e permettere che la sua voce venga ascoltata in ambiti scientifici e politici è un compito fondamentale per gli studi umanistico/ambientali e per tutti/e coloro che condividano la prospettiva della giustizia ambientale e climatica.

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Articolo originariamente pubblicato in “Riflessioni Sistemiche”, 17, dicembre 2017

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