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Verso una politica radicale dell’energia-lavoro

Verso una politica radicale dell’energia-lavoro

Il testo di Jason W. Moore Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria,  (introduzione e cura di Emanuele Leonardi e Alessandro Barbero, Ombre Corte, Verona 2017) è stato reso disponibile in preparazione  alla giornata di studio e approfondimento intitolata Antropocene o Capitolocene? Un’ecologia politica al plurale? svoltasi a Napoli il 9 giugno 2018 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici nell’ambito delle attività programmate dal Laboratorio di studi Ecologie Politiche del Presente.

Si tratta delle conclusioni di Moore, nelle quali si mette in luce la necessità di ripensare “il lavoro” nel capitalismo:

“Il capitalismo non potrebbe sopravvivere un giorno senza […] l’appropriazione dell’attività umana non retribuita, per lo più riprodotta al di fuori della forma-denaro. Per questo una politica rivoluzionaria della sostenibilità deve riconoscere una divisione tripartita del lavoro nel capitalismo: la forza-lavoro, il lavoro umano non retribuito, e il lavoro della natura nel suo complesso. È questa la “trilettica” del lavoro nell’ecologia-mondo capitalistica. La questione dello sfruttamento della forza-lavoro presuppone non solo un meccanismo espansivo di appropriazione della natura extra-umana, ma anche lo sfruttamento del lavoro non pagato delle donne”.

La falsa contrapposizione Lavoro/natura

Il capitalismo è, prima di ogni altra cosa, uno specifico modo di produzione teso all’infinita accumulazione di capitale. E cos’è il capitale? Ogni marxista ve lo potrebbe dire: “valore in movimento”… Ma la spiegazione deve scavare più in profondità. Il valore è una cristallizzazione specifica delle fonti di ogni ricchezza: il lavoro umano e non umano (Marx 2007, p. 7). Marx dedicò una cura particolare al fatto che il lavoro – così come la politica socialista – non può essere astratto dalla natura:

Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è tanto la fonte dei valori d’uso (e non consiste in questi la ricchezza materiale?) quanto il lavoro, che è esso stesso solo l’espressione di una forza naturale, della forza-lavoro (Marx 2007, p. 33).

Il pensiero marxista e quello ambientalista – così come i progetti politici a essi collegati – hanno troppo spesso fallito nella ricerca di un terreno comune perché hanno attributo quella che Marx chiama “forza creativa soprannaturale” (ivi, p. 34) all’uno o all’altro lato della diade Natura/Società. Due fondamentalismi uguali e contrari – del lavoro e della natura – hanno finito col prevalere nel dibattito. Dal punto di vista politico, questa situazione si manifesta nell’assurdo e falso conflitto tra “posti di lavoro” e “ambiente”. La tragedia di questo conflitto mistificante si è mostrata ancora una volta nell’inverno 2016 riguardo al progetto Dakota Access Pipeline – un oleodotto di quasi 2000 chilometri che trasporterebbe greggio dal North Dakota all’Illinois meridionale (Sammon 2016). Il maggiore sindacato del paese, l’afl-cio ha fatto pressione sul Governo Federale affinché assicurasse il completamento dei lavori (2016), benché a Standing Rock la tribù dei Sioux e i suoi alleati stessero organizzando un’opposizione molto agguerrita (Queally 2016)[1]. Questa volta, però, la protesta ha trovato sostegno anche tra le fila del movimento operaio, non da ultimo nel sindacato delle infermiere [National Nurses United] che ha bollato il progetto come “minaccia continua alla salute pubblica” (2016). Questa convergenza tra sindacato e movimenti attorno alla difesa della riproduzione socio-ecologica (latamente intesa) suggerisce lo sviluppo dell’intuizione di O’Connor (1998). Quanto più il capitale estende la forma-denaro nella sfera della riproduzione, tanto più esso minaccia il benessere delle nature umane ed extra-umane stabilendo nuove condizioni di lotta anti-capitalista. Queste “nuove condizioni” riguardano da vicino il terreno della riproduzione (salute, educazione – ma anche beni comuni globali) e favoriscono una politica radicale del lavoro e della vita che necessariamente va al di là del riduzionismo economico.

Il lavoro-nella-natura, la natura-nel-lavoro

Non sappiamo se il movimento operaio e quello ambientalista riusciranno a trovare un terreno d’intesa in tempi sufficientemente rapidi per evitare le disastrose conseguenze del riscaldamento globale (Barca 2016b). La stagnazione della crescita della produttività del lavoro a partire dagli anni Settanta del xx secolo potrà certamente intensificare il ricatto occupazionale, anche se rivela con altrettanta evidenza la bancarotta del modello capitalistico di crescita economica (Gordon 2012). Rileggere Marx non risolverà magicamente il conflitto. Eppure un’interpretazione radicalmente ecologica e femminista della storia del capitalismo (del suo sfruttamento e della sua appropriazione) ci fornisce la chiave per parlare di lavoro in modo nuovo, per ripensarlo come un fronte comune – che chiamo energia-lavoro – senza cadere nei particolarismi delle singole pratiche ed esperienze di lavoro. Da questo punto di vista Marx potrebbe indicare una via per liberarci delle mistificazioni del dualismo Lavoro/Natura – un dualismo materiale in quanto astrazione reale e violento in quanto negazione di ogni progetto socialista che intenda emancipare non una ma tutte le forme di vita.
Perché il lavoro si muove sempre nella e attraverso la rete della vita. Quando pronunciamo la frase “lavoro e natura” dovremmo essere consapevoli che ci riferiamo a un’unità dialettica: lavoro-nella-natura, natura-nel-lavoro. I due momenti non sono separati – non lo erano nelle piantagioni di zucchero, nelle miniere d’argento o nei cantieri navali nel xvi secolo, e non lo sono oggi nei laboratori clandestini, nei data centers, nelle catene di fast food. Il lavoro è sempre lavoro-nella-natura. Questo concetto di lavoro implica una triplice trasformazione: di noi stessi, delle nature esterne, delle nostre relazioni con gli altri esseri umani (Marx 1987a). E se il processo è più complesso per quanto riguarda le civiltà, nondimeno anch’esse devono “lavorare”. Cos’è infatti una civiltà se non un dispositivo specifico di mobilitazione del lavoro – umano, certo, ma anche vegetale, animale, geologico?
Il capitalismo, tuttavia, non potrebbe sopravvivere un giorno senza un terzo momento del lavoro: l’appropriazione dell’attività umana non retribuita, perlopiù riprodotta al di fuori della forma-denaro. Per questo una politica rivoluzionaria della sostenibilità deve riconoscere una divisione tripartita del lavoro nel capitalismo: la forza-lavoro, il lavoro umano non retribuito, e il lavoro della natura nel suo complesso. È questa la “trilettica” del lavoro nell’ecologia-mondo capitalistica. Perché la questione dello sfruttamento della forza-lavoro presuppone non solo un meccanismo espansivo di appropriazione della natura extra-umana, ma anche lo sfruttamento del lavoro non pagato delle donne. Infatti l’emergere del capitalismo fu legato a doppio filo all’espulsione delle donne dalla Società e alla loro forzosa ri-localizzazione nel regno delle nature “a buon mercato” (von Werlhof 1985; Federici 2014; Mies 1986; Moore 2015a, 2015b).
Una politica della natura fondata sul deterioramento ambientale piuttosto che sul lavoro sostenibile rende la visione radicale vulnerabile rispetto a una critica in particolare – quella che sostiene che la natura incontaminata non è mai esistita, che viviamo in un’altra tra le molte epoche di cambiamento ambientale che può essere governata attraverso l’innovazione tecnologica (Lynas 2011; Shellenberger e Nordhaus 2011). Partiamo dal presupposto che questa tipo di argomenti sono solo spazzatura. Il contro-argomento, per il Capitalocene, mostra il deterioramento della natura come espressione specifica dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Il “lavoro” assume molte forme in questa concezione: è un processo geo-ecologico molteplice e multi-specista. Questa definizione ci permette di pensare alla tecnologia come un fenomeno radicato nelle nature co-prodotte dal capitalismo. Ci permette di vedere come il capitalismo abbia prosperato utilizzando il lavoro della natura nella sua totalità, l’attività umana nelle forme del lavoro “retribuita” o “non retribuita” e catturando il lavoro-energia della biosfera.
Ripensare il lavoro nel capitalismo – al di là del fondamentalismo del lavoro – è un compito cruciale per uscire dalla realtà attuale, tutt’altro che piacevole.

Una visione rivoluzionaria dev’essere in grado di articolare una politica che connetta la crisi della biosfera e la crisi del lavoro produttivo e riproduttivo. Una politica della natura rivoluzionaria che non sappia parlare del precariato e dell’insicurezza sociale, dell’“umanità in surplus” (Davis 2006), della violenza razziale e di genere, è votata al fallimento. Una politica del lavoro rivoluzionaria che non parli dell’attuale crisi della vita su scala planetaria e dei continui e incombenti “cambiamenti di stato” dei sistemi del pianeta, sarà altrettanto condannata.

È giunto il momento di aprire un dibattito serio su come forgiare una visione radicale che assuma come proprie premesse la totalità organica della vita, la biosfera, la produzione e la riproduzione.

Note

[1]     Opposizione che fino al momento in cui scriviamo – dicembre 2016 – ha avuto successo [N.d.C.].

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