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Quarta riflessione: Beni comuni e standard urbanistici

Quarta riflessione: Beni comuni e standard urbanistici

Per accompagnare in modo efficace l’analisi sul nesso Beni comuni-Urbanistica-Costituzione, si propongono 4 riflessioni:

  1. Spazio e norma
  2. Responsabilità e salvaguardia, conservare PER il futuro
  3. Territorio, disciplina urbanistica e rispetto della Costituzione
  4. Beni comuni e standard urbanistici

Per ogni sezione sono proposte “Riflessioni parallele” e “Temi generati/evocati”, articolati in “Segni e immagini” e “Retrospettive”

Quarta riflessione: Beni comuni e standard urbanistici

Quello degli standard urbanistici è un campo significativo per l’approfondimento del nesso “Beni comuni-Urbanistica- Costituzione”.

Gli standard rappresentano, infatti, la traduzione territoriale di alcune garanzie costituzionali [1].

«In vista di quei livelli essenziali che essi devono assicurare, si conserva – per l’art.117, comma 2, della Costituzione – una riserva statale: contrariamente a quanto talvolta si sostiene, per gli standard urbanistici non c’è stato un rimando tout court alla sfera del governo del territorio attribuita alle regioni. E, tra i motivi per i quali il DM 1444/1968 si è dimostrato saldo, c’è l’alto profilo dei suoi obiettivi, tant’è che sopravvive grazie al fondamento primario che lo lega a diritti costituzionalmente tutelati. Nel decreto è insita la finalità di garantire l’esplicazione di un’ampia gamma di diritti di cittadinanza: salute, assistenza sociale, istruzione, culto, fruizione del tempo libero, del verde, dello sport, alcuni strettamente connessi al godimento del paesaggio e del patrimonio storico. C’è motivo, inoltre, di ritenere che il tema si riconduca anche ad altre materie di legislazione esclusiva, basti pensare al modo in cui gli standard presidiano sul territorio le norme generali sull’istruzione, i rapporti tra confessioni religiose, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (cfr. lettere c), n), s), dell’art.117 comma 27 Cost.)» [2].

Le idee consolidate che si associano al reperimento degli standard necessari per legge sono almeno due: la prima è quella dell’onere che grava sulle Amministrazioni per l’acquisizione delle aree o per la realizzazione delle opere; la seconda è quella dell’onere che grava sul privato quando, a fronte di una propria iniziativa di edificazione prevista dai piani locali, deve cedere alla mano pubblica aree da destinare allo standard. È l’esito di quella visione conflittuale tra proprietà pubblica e proprietà privata che non rispecchia la preminente soddisfazione dell’interesse collettivo come fine comune.

Ma se volessimo tornare all’idea che il territorio è soprattutto il luogo della comunità e per certi versi “nell’originario possesso della comunità”, capiremmo più agevolmente che l’assicurare lo standard dovrebbe essere espressione di una composizione non conflittuale, ma solidale.

Viene in aiuto il pensiero sui beni comuni, ridimensionando – se così si può dire – il tema. Innanzitutto perché i beni comuni sono fuori dalla logica di mercato. Prima di procedere ad azioni di acquisizione di aree con onere di indennizzo, prima di immaginare – come purtroppo si continua a fare – che sia possibile prevedere altra espansione con il falso miraggio che sia essa sola, con la cessione di aree, “a produrre nuovo standard”, bisognerebbe domandarsi quali siano i beni già comuni di cui la città pubblica dispone.

Nella logica dei beni comuni ciò significa favorire l’immediata funzionalizzazione costituzionale dei beni pubblici.

Di essi, quelli appartenenti allo Stato-comunità (demaniali/non commerciabili) restano ancorati alla destinazione pubblica. Quelli che invece rivestono la cosiddetta natura patrimoniale (disponibili/alienabili), andrebbero comunque trattenuti a vantaggio delle comunità. Le politiche di dismissione, invece, hanno alterato la funzione dei beni pubblici distogliendoli dalla soddisfazione dei diritti collettivi.

Ma beni comuni sono anche – secondo un saldo filone giuridico – le “limitazioni” derivanti alla proprietà privata e contenute nella Costituzione in relazione alla funzione sociale che essa è tenuta ad assicurare (art. 42 Cost.). Nell’ambito di queste limitazioni (non indennizzabili) risiede il concorso che la proprietà privata è tenuta a garantire in funzione del soddisfacimento di diritti sociali e collettivi. Esempio emblematico di questo “concorso” è quello dei beni paesaggistici.

«Là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale (…) detto bene è da ritenersi (…) “comune” vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini» (Cassazione n. 3813/2011).

Tra i beni comuni funzionali al soddisfacimento degli standard, sono da riguardare i beni in abbandono. Quando ricadono in proprietà privata, ci sarebbe – secondo un filone di pensiero – il transito tout court nei beni pubblici. Con esiti tra loro diversi, la regolamentazione dei beni in abbandono – tema di straordinaria rilevanza progettuale – ha avuto recenti affermazioni in molti casi: Napoli, Torino, Milano e Padova.

Capitolo a parte, giuridicamente più complesso, quello del patrimonio ecclesiastico in abbandono. Se non ricondotti rapidamente al godimento della comunità, i beni in abbandono rischiano di essere travolti dallo sfruttamento di mercato e di essere dirottati alla sola utenza turistica [3].

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Tra le prospettive innovative sul tema degli standard, connessa al concetto di beni comuni, c’è quella degli usi transitori, introdotti tuttavia dal cosiddetto decreto semplificazioni, nell’usuale solco della “deroga” alle destinazioni d’uso previste. Ma serve forse una riflessione diretta allo studio di ulteriori flessibilità.

L’uso transitorio di un bene in abbandono non ha motivo di ricorrere al sistema delle deroghe: potrebbe essere già il piano urbanistico ad ammettere la transitorietà degli usi, per consentire che proprio l’uso collettivo e condiviso ovvero anche l’alternanza e la rotazione dei “sistemi di cura” contribuiscano ad un ripristino del bene, in vista di un riallineamento della sua consistenza fisica con le destinazioni collettive per le quali in molti casi originariamente nasceva.

Note

[1] Laura Travaglini, Gli standard urbanistici e le garanzie dimenticate in AA.VV., Territorio senza governo. Tra Stato e regioni: a cinquant’anni dall’istituzione delle regioni, Derive Approdi, 2020;

[2] Ibidem. Sul tema vedi anche Diritti in città. Gli standard urbanistici in Italia dal 1968 a oggi, Donzelli editore, Bologna 2021.

[3] Tomaso Montanari, Chiese chiuse, Einaudi 2021; Id., Le pietre e il popolo, minimum fax 2013

Riflessioni generali e temi generati/evocati

Segni e immagini: Il miraggio di un atlante dei beni comuni

Retrospettive: I luoghi del collettivo/ spazio aperto e tipologie delle comunità

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